Vecchia Storia
Pubblicato il 18 apr 2013
di Andrea Fabozzi –
«Come nei lavori sotterranei per la metropolitana di Roma, la marcia di avvicinamento al Quirinale avviene a foro cieco. Ciascuno con la sua “talpa” si apre pazientemente una galleria che spera sia stagna, e poiché i minatori presidenziali sono molti, i cunicoli sotto il colle romano si incrociano e si intricano sempre di più, facendo pensare al labirinto che nel sottosuolo di Parigi percorse Jean Valjean, protagonista dei Miserabili di Victor Hugo».
Miserabile è parola che avrà un posto nella storia dell’elezione del dodicesimo presidente della Repubblica, che inizia ufficialmente oggi. Ma che è partita da settimane, da quando le talpe di cui scriveva Vittorio Gorresio in uno dei magistrali articoli della serie «Come si fa un presidente» del 1971, su La Stampa, hanno cominciato a scavare. L’affondo di Matteo Renzi contro Anna Finocchiaro, e la di lei furiosa risposta – «miserabile», appunto – sono serviti a rendere evidente la trama di queste elezioni. È stata una corsa giocata in gran parte dentro il perimetro del partito democratico, se non esclusivamente. Questa volta gli eredi della tradizione comunista si sono trovati nella condizione di non poter giocare di rimessa. E nell’affrontare la fatica di chi deve fare la prima proposta, hanno messo in scena tutte le loro contraddizioni. Al punto di decidere di non abbracciare un’ottima candidatura, di certo la migliore tra quelle sul tappeto, Stefano Rodotà, che oggi raccoglierà comunque i suoi voti grazie ai grandi elettori di Grillo. E che vincerebbe qualsiasi primaria e qualsiasi sondaggio, online e offline, tra gli elettori di centrosinistra, soprattutto se messo a confronto con i nomi della «rosa» che Bersani ha offerto a Berlusconi.
Un accordo, si dirà, era indispensabile. Ma non si è trattato di questo, perché accordo sarebbe stato anche quello con il Movimento 5 stelle, bensì piuttosto di un riconoscimento tra simili. E un disconoscimento che qualcosa è irrimediabilmente cambiato dopo il 25 febbraio scorso, come se le scorrettezze di Grillo bastassero a far dimenticare quello che gli elettori hanno mandato a dire. Il Pd avrebbe potuto dare un primo segnale all’altezza delle novità attese, invece si appresta a perpetuare il rito dell’elevazione al Colle nella più stanca continuità.
Non è un’inedito che le divisioni all’interno del gruppo più numeroso di grandi elettori consentano agli avversari di scegliere fior da fiore tra i pretendenti di maggioranza. Elezione dopo elezione, le correnti della Dc hanno offerto il fianco a socialisti e comunisti, oggi a trarre beneficio dalla convivenza forzata nel Pd è il Pdl. E non è insolito che nella partita per l’elezione del presidente della Repubblica si consumi una leadership di partito; Bersani pare avviato su quella strada. Ed è uno sgradito ritorno la regola dell’alternanza tra un presidente laico e uno cattolico: la politica che procede con lo sguardo a terra ne chiede il rispetto senza accorgersi che anche la chiesa è cambiata.
È una storia cominciata il 18 aprile di 65 anni fa. Ed è sempre un 18 aprile, quello di 20 anni fa, il giorno indicato come la data di partenza della cosiddetta «seconda Repubblica». Allora (1993) infatti un referendum mise la basi per l’addio al sistema elettorale proporzionale – aprendo la strada a una legge chiamata Mattarellum. Che Marini resista come prima scelta, che tornino a salire le quotazioni di D’Alema o Amato o Mattarella tenuti in seconda linea per indirizzare le fughe dei franchi tiratori, questo 18 aprile non si annuncia come un giorno di svolta.
L’ultima parola però può scriverla solo l’aula sovraffollata della camera. Le resistenze nel Pd, meno o più interessate come quella del sindaco di Firenze, non mancano. E se si scivola fino alla quarta votazione, domani sera, se i grandi elettori vengono liberati dall’abbraccio con il Pdl, qualcosa di positivo può ancora succedere. Malgrado il modo in cui Grillo è entrato nella partita: perfetto dal punto di vista di chi vuole innanzitutto mettere in difficoltà e far implodere il partito democratico, ma assai sbagliato a voler mettere in cima ai pensieri l’opportunità di eleggere un buon presidente della Repubblica.
Al Pd infatti la candidatura di Rodotà è stata lanciata tra i denti. È l’opportunità migliore, ma Bersani per coglierla deve destreggiarsi tra gli insulti e accettare di fare sua la terza scelta dei militanti a 5 stelle. Che hanno votato, poi, in un modo che resta misterioso, e stranamente ideale per il dispiegarsi delle strategie grillesche. Il buio più totale sui votanti e sui voti delle «quirinarie», la mancata trasparenza di chi si atteggia a trasparente è forse un prezzo da pagare al «nuovo che avanza?». Niente affatto ed è ancora Gorresio a raccontarlo, a proposito del modo in cui i democristiani scelsero Antonio Segni. I gruppi parlamentari si riunirono e fu deciso che «a evitare inconvenienti – di natura diversa, ma comunque spiacevoli – si era convenuto che gli scrutatori avrebbero dovuto proclamare soltanto il nome del primo in classifica, senza indicare il numero dei voti che egli avesse raccolto, né la sua percentuale, né la distanza dal secondo, né alcuna graduatoria: e poi bruciare le schede in un forno». Era il 1962.
Il Manifesto – 18.04.13
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